Sviamento del decorso causale e imputazione del reato. Riflessioni sul rapporto tra rischio e dolo – Riccardo Orlandi

La figura dell’aberratio causae ricorre quando, a causa dell’intervento di un fattore eziologico anomalo, l’autore realizza un fatto di reato attraverso un decorso causale diverso da quello che si era rappresentato. Lo sviamento del decorso causale può essere dovuto anche all’errata convinzione dell’autore che la prima frazione di condotta sia stata sufficiente a produrre l’evento, quando in realtà il risultato si realizza soltanto successivamente, attraverso una seconda parte di condotta diretta però ad un altro scopo e cioè all’occultamento dell’azione precedente. Questi due casi di divergenza tra il voluto e il realizzato, nei quale l’agente si rappresenta e vuole realizzare un fatto in maniera diversa da come effettivamente poi si manifesta nella realtà esterna, pare coinvolgere contemporaneamente tanto la dimensione oggettiva quanto quella soggettiva della tipicità del reato. Partendo così da un tema classico e circoscritto, la riflessione sulla possibilità di riconoscere un errore sul fatto rilevante aiuta a porre in luce i riflessi che questa sconnessione tra rischi o comunque l’alterazione del rischio iniziale può avere sull’elemento psicologico del reato e conduce ad interrogarsi proprio su cosa debba essere ricompreso nell’oggetto del dolo. Considerazioni di taglio prettamente teorico, che riguardano l’errore-motivo, l’errore-inabilità e il concetto formale di dolo, risultano utili per provare a delineare alcune sue dinamiche di accertamento, secondo criteri normativi e individualizzanti. La prospettazione di modalità conoscitive della coscienza e della volontà dell’agente, che siano in grado di trovare applicazione nelle aule di giustizia, rappresenta un valido strumento di riscontro della nozione stessa di dolo, nonché della sua riconducibilità al dettato dell’art. 43 Cp.

The figure of “aberratio causae” occurs when, owing to the intervention of an anomalous causal factor, the perpetrator achieves an offence through a process other than the one he had intended. The misdirection of the causal course may also be due to the author’s mistaken belief that the first part of the conduct was capable of producing the event, when in fact the result is only realised later, through a second part of conduct directed, however, to another purpose, namely the hiding of the previous action. These two cases of divergence between what is intended and what is realised, in which the author represents and intends to realise a fact in a way that differs from how it actually manifests itself in external reality, appear to involve both the “actus reus” and the “mens rea” of the crime at the same time. Thus, starting from a classical and circumscribed theme, the reflection on the possibility of recognising a mistake as absence of fault helps to highlight the consequences that this dissociation between risks, or in any way the modification of the initial risk, can have on the psychological element of the crime, and leads to the question of what exactly should be included in the object of intent. Considerations of a purely theoretical nature, concerning the mistake-reason, the unforeseen mode and the formal concept of intent, are useful for trying to sketch out some of its dynamics of ascertainment, according to normative and individualising criteria. The exposition of cognitive modalities of the author’s consciousness and will, which are capable of being applied in the courtroom, represent a valid tool for verifying the concept of intent itself, as well as its referability to the dictate of Article 43 of the Criminal Code.

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