L’imputazione per abuso d’ufficio: riscrittura della tipicità e giudizio di colpevolezza – Andrea Perin

L’art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito in legge (L. 11 settembre 2020, n. 120), ha riscritto l’art. 323 Cp, ridimensionandone la portata, con l’obiettivo di abrogare esegesi espansive ritenute responsabili di generare nel funzionario pubblico il cd. “timore della firma” e la paralisi del sistema amministrativo. A fronte di questa ulteriore riforma, il presente contributo ripercorre brevemente l’evoluzione della disciplina dell’abuso d’ufficio, dal 1930 ai giorni nostri, rimarcando alcuni aspetti dello scontro tra “formanti” a cui si assiste sul terreno del contrasto al fenomeno dello sfruttamento dell’ufficio a fini privati. L’analisi considera inoltre alcune recenti proposte de lege ferenda per valutare, alla luce del testo legislativo ora vigente, l’opportunità di un cambio di rotta in punto di metodo di “confronto”. L’ultima parte dello studio propone quindi soluzioni interpretative che investono sia la fattispecie obiettiva, sia il versante della colpevolezza. Sul piano tipico-oggettivo, si rivalorizza il “nesso di rischio” (o “causalità normativa”), quale elemento utile a non disperdere il requisito della “doppia ingiustizia”, anche rispetto agli atti discrezionali del pubblico agente; questi, se compiuti in violazione di discipline legislative specifiche e attinenti a profili vincolanti, ricadrebbero ancora sotto il controllo del giudice penale. Per quanto riguarda il versante soggettivo del giudizio d’imputazione, si sostiene la necessità di accreditare la consapevolezza della violazione di legge, oltre al dolo intenzionale di evento, configurando una composizione della colpevolezza auspicabilmente idonea a ridurre il problema della cd. “amministrazione difensiva”.

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